Immagina un campo aperto circondato da una corona di alberi spogli, l’orizzonte occupato dalle montagne appena innevate, l’aria umida e freddolina e il cielo uggioso di nebbiolina di fine autunno; ora senti il rumore dei campanacci, le grida forsennate dei cani, qualche raglio d’asino e il belare degli armenti. Poco importa se sia solo metà novembre: è subito presepe.
Questa parola in sé indica la stalla o, meglio, la mangiatoia: una mangiatoia per antonomasia, quella in cui fu deposto il Bambinello in fasce. Durante il periodo della Rivoluzione industriale, era abitudine per gli stabilimenti industriali avere un luogo denominato appunto “presepe” in cui le operaie potevano veder custoditi i loro lattanti. Dobbiamo invece a san Francesco la tradizione di allestire una rappresentazione plastica o vivente di ciò che accadde nella Notte Santa intorno a quella povera mangiatoia. E dobbiamo alla fantasia di ciascuno ogni versione più o meno tradizionale, più o meno concettuale di quella rappresentazione.
Il calore però che proviamo di fronte ad essa, quello forse dipende dai protagonisti di quella scena: i pastori. Se ti è mai capitato di assistere dal vero ad una scena simile, se ti è mai capitato di trovarti bloccato in mezzo alle greggi che invadono la strada, sai però che i pastori non conducono una vita idillicamente semplice e il gregge non è per niente candido e soave.
Di fronte al presepe ci sentiamo accolti. Chiunque tu sia, in qualsiasi condizione tu viva, qualsiasi sia la tua preoccupazione, vieni: entra al cospetto della piccolezza, portati alle radici della mitezza, riprenditi sogni incantati e lasciati cullare dal chiarore di un cielo stellato.
Elisa Parise