La parola ciao è la più comune forma di saluto amichevole e informale della lingua italiana. Essa è utilizzata sia nell’incontrarsi, sia nell’accomiatarsi, rivolgendosi a una o più persone a cui si dà del tu. Un tempo diffusa soprattutto nell’Italia settentrionale, è divenuta anche di uso internazionale. In riferimento ai bambini, “fare ciao” indica un gesto di saluto ottenuto aprendo e chiudendo la mano o agitando la mano. “Ciao” è anche un’espressione metaforica e informale per indicare la fine sicura di qualcosa (es. “si è stancato della moglie e ciao”). “Ciao” è entrato nella lingua italiana solo nel corso del Novecento. Deriva infatti dal termine veneto (più specificamente veneziano) s’ciao proveniente dal tardolatino sclavus, traducibile come “[sono suo] schiavo”. Si trattava di un saluto assolutamente reverenziale, variamente attestato nelle commedie di Carlo Goldoni in cui viene pronunciato con sussiego da nobili altezzosi e cicisbei; ne La locandiera, ad esempio, il Cavaliere di Ripafratta si congeda dagli astanti con «Amici, vi sono schiavo», espressione usata anche da Don Roberto nella commedia La dama prudente (atto I, scena VI). Nonostante ciò, a partire dall’Ottocento si diffuse come saluto informale. Nello stesso periodo cominciò a penetrare nella lingua italiana, tanto che nel suo Dizionario della lingua italiana Niccolò Tommaseo constatava – con un certo rammarico – come anche in Toscana qualcuno cominciasse ad usare la formula “vi sono schiavo”. Fu tuttavia la forma “ciao” a fare fortuna e nel secolo successivo si diffuse in tutta la Penisola. Un’etimologia analoga ha il saluto informale servus diffuso nell’Europa centrale.
Marta Santin
