La neve stava trasformandosi in un ricordo. Un alito tiepido pregustava con nostalgica premonizione la primavera in arrivo, il tutto mentre sempre più sporadiche isole bianche punteggiavano il sottobosco sull’orlo del risveglio. I primi germogli fecero capolino alle porte di un sole ancora timido ma sempre più pronto a lasciarsi un po’ andare. Piccoli boccioli turgidi di un verde quasi inesprimibile, preludio di un futuro di chiome cotonate ed eteree.
Il ciclo della vita, instancabile, che rinnovava il proprio eterno miracolo.
Lentamente, ma senza fatica, i giorni seguirono i giorni, vagoni di tempo in costante movimento, e mentre la luce rubava sempre più spazio alla notte, il tepore coccolava le prime foglie, timidamente impacciate in balìa dei capricci della primavera.
Fu allora che giunsero le prime esili voci a Gaia, piccolo tenero cuoricino verde di foglia appesa ad un castagno d’alta quota, da poco affacciatasi alla vita.
Una brezza proveniente da sud aveva spinto fin lassù notizie provenienti da posti reconditi, viaggiando controcorrente rispetto al fiume che si fiondava a rotta di collo verso valle, inebriato da acque forgiate dal disgelo.
Mentre Gaia ascoltava queste storie sopraggiunse l’estate, e con essa le abbacinanti giornate punteggiate di fiammeggianti raggi di sole.
Era cresciuta Gaia, ed insieme a lei anche le altre compagne clorofilliane. Ora, tutte insieme, formavano sul castagno ove vivevano una zazzera smeraldina, una verde capigliatura cotonata degna dei famosi anni settanta.
Il continuo fruscio delle sue sorelle portava notizie sempre più interessanti provenienti dal mare. Raccontavano di tramonti infuocati, di albe rilucenti, colme di speranzosa vita, di onde che da sussurro diventavano canto, fino a raggiungere tonalità da soprano. Gaia ascoltava incuriosita e assorbiva questi gossip adamantini con voracità. Lo stare aggrappata ad un ramo diventava così sempre più pesante. Nel frattempo, nel tempo di un respiro, se ne andò anche l’estate. Ricordi di pomeriggi frementi di cicale scivolarono via come granelli di sabbia trasportati dal vento.
Le prime fresche notti dell’autunno alle porte presentarono a Gaia le avvisaglie della caducità della vita.
Nella luce obliqua del crepuscolo, d’oro vestita, fragile come cristallo, si sentì comunque ancora fatalmente e inesorabilmente bella. Il fiume aveva ricevuto le primissime piogge d’autunno, e prometteva emozioni intense a chi fosse disposto ad accettare un suo passaggio fino a valle.
Gaia decise che era giunta l’ora di andare, non v’era più motivo né necessità d’indugiare oltre. Salutò il suo castagno, la casa che nel bene e nel male aveva racchiuso la propria esistenza fino ad allora e si lasciò cadere; lieve, lenta, leggera.
Il fiume l’accolse nello scintillìo, e finalmente partì per il viaggio da sempre sognato.
Fu lungo il tragitto da percorrere tra le braccia delle acque argentee, di una lunghezza tale che la portò nel cuore dell’inverno.
Viaggiò notte e giorno, gustando un mondo completamente nuovo per lei, superando pianure rigogliose e fumose città. Il cielo a volte sepolto da una lattea nebbia, altri giorni invece splendidamente gelido e terso come un cristallo blu.
L’ultima notte, una rigogliosa luna la accolse sul riflesso della foce del fiume, poco prima di un’alba che non era altro se non il tramonto di tutto.
Il mare la ricevete e la cullò tra le proprie braccia, accarezzandola su onde docili e un po’ svogliate. Un soffio di vento la sollevò ad un passo dal cielo, facendola volare e fremere come un tempo, quando da esile e acerba fogliolina corteggiava il sole del mattino.
Fu solo un istante, l’ultimo, dopodiché scivolò via, al di là del visibile, fondendosi con la verde vastità del mare, diluendosi nell’eternità del cielo.
Denis Gerotto